Compositori cattolici in rivolta: “Basta brutta musica in chiesa”

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Convegno con i maestri di cappella dopo 25 anni di silenzio. «I preti non sanno più cantare. Stop alle messe-Sanremo»

La Chiesa cattolica è muta. Quando canta, lo fa male, in un modo che profana la liturgia. «Dopo l’ubriacatura di “Batti le mani, alzale in alto”, degli Alleluia a grappolo, di “Bella, bella, bella Maria”, dopo le Ave Maria reinventate e i Padre Nostro blasfemi, non sarà il caso di darsi una calmata e tornare a cantare la Parola di Dio invece dei repertori orrendi che si sentono nei coretti delle nostre parrocchie?», si domanda don Valentino Donella, direttore emerito della Cappella di Santa Maria Maggiore a Bergamo.

«Nelle funzioni dilaga un atteggiamento populista. Ma cantare la liturgia non significa allietare una riunione di amici, come purtroppo è all’ordine del giorno. La musica sacra deve possedere tre caratteristiche: essere santa, essere arte vera, essere universale. Nel nostro terreno sono cresciute le erbacce», denuncia, con tutta la sua autorevolezza, Monsignor Valentino Miserachs Grau, direttore della cappella di Santa Maria Maggiore a Roma. «Siamo afflitti, almeno nelle Marche, dalla bonghite: le chiese sono invase dai bongo», dice don Marco Mascarucci, della diocesi di Fano e direttore del Segretariato Istituti Diocesani di Musica Sacra. Michele Manganelli, direttore della Cappella Musicale di Santa Maria del Fiore a Firenze e docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, insiste sull’assenza dell’insegnamento musicale nei Seminari: «I primi che non sanno quello che vogliono sono i liturgisti, i parroci, i vescovi. Non sanno quello che si deve fare e non cantano. Pigiano i tasti dell’“animatore liturgico” e trasmettono delle musiche registrate, ma se il celebrante non canta, non canta neppure l’assembla e il rito è dimezzato. Inoltre, non c’è alcuna committenza: oggi il compositore di musica sacra fa la fame».

LE CRITICHE

Queste voci radicalmente critiche sono emerse dal convegno dei Compositori di Musica Sacra, tenuto a Roma per iniziativa dell’Associazione Italiana Santa Cecilia. L’occasione è stata il centenario della nascita di Domenico Bartolucci, nel 1956 nominato da Pio XII «direttore perpetuo» della Cappella Sistina, la Cappella personale del Papa, ma sostituito da Giovanni Paolo II nel 1997, poi elevato alla porpora cardinalizia da Benedetto XVI nel 2010, scomparso nel 2013. Compositore e direttore, Bartolucci credeva possibile conservare nel nostro tempo la ricchezza delle tradizioni del canto gregoriano e della polifonia rinascimentale, declinandole però con una saggia semplicità che rendesse possibile la partecipazione dei credenti al canto, «perché la parola di Dio vive nella musica sacra». Oggi, la sua battaglia appare sconfitta.

«Mancano anche i poeti, gli autori. Vengono pubblicati da case editrici cattoliche dei testi che andrebbero bene per Sanremo, dove si parla indistintamente di amore o di lontananza da lui, da lei, senza alcun riferimento al sacro», aggiunge il presidente dell’Associazione Santa Cecilia, monsignor Tarcisio Cola che ha concluso il convegno officiando una Messa molto degnamente cantata nella Cappella del Coro della Basilica di San Pietro. La scelta del luogo non è stata casuale: qui, dove canta la Cappella Giulia, è tumulata la salma di Pio X, il Papa che con il Motu Proprio sulla musica sacra del 1903 pose le premesse per una riforma nel segno dell’identità del canto liturgico, chiamato a distinguersi dagli altri stili, soprattutto da quello dell’opera lirica, allora dominante al punto che in chiesa o in teatro si ascoltava la stessa musica. Cambiavano le parole, ma armonie, melodie, arie e duetti erano del tutto simili.

IL CONFRONTO

Una strategia che, un secolo dopo, non è riuscita a imporsi. Il confronto con la dignità musicale e vocale della Chiesa luterana è impietoso; ma anche all’interno del cattolicesimo, le chiese italiane si distinguono per la mediocrità. In un saggio di imminente pubblicazione per la Treccani scrive don Alberto Brunelli, storico della musica e eminente organista: «Ogni parrocchia ha una propria raccolta di canti in continua evoluzione o involuzione. La cultura dell’effimero ha raggiunto anche la liturgia. Ci si è accorti che il Concilio Vaticano II non proibiva proprio nulla dell’antico e apriva senza problemi al moderno. Questa assoluta libertà ha portato a un livellamento verso il basso dal quale si stenta a rialzarsi». E Papa Francesco? «Paolo VI stonato com’era, cantava sempre. Benedetto XVI conosce e ama la musica e sa cantare.Papa Francesco non canta, purtroppo», constata intristito don Gonella.

Tratto da: Vatican Insider