Omnis, Pater, fons gratiae, Padre, fonte di grazia,
Lumen paternae gloriae, Luce della sua gloria,
Sancte utriusque Spiritus, Soffio che spiri in loro,
interminata caritas: o sconfinato amore:
ex te, suprema origine, da te, sorgente altissima,
Trias benigna profluit o Trinità, fluisce
creata quicquid sustinet, ciò che ogni cosa regge,
quicquid decore perficit. e di beltà incorona.
Illustrare con parole il contenuto del dogma della Trinità è impresa difficile. Non per niente, non essendovi alcun “evento” da descrivere, come in altre feste, la liturgia risolve il problema costruendo nelle antifone un ricamo di formule che giocano sul numero tre intrecciato con l’uno, e che sono vari modi di innalzare a Dio la lode e la benedizione nel linguaggio tipico della “dossologia”, cioè il lessico della gloria.
Per me personalmente, gioca a sfavore dell’impresa anche il modo con cui la teologia della fine anni ’50, tutta pregna di elaborazioni razionali, “spiegava” il dogma. Quei manuali su cui avevo studiato li buttai subito dopo l’ordinazione, quando, chiamato a fare catechesi a un gruppo di giovani, capii che non mi sarebbero serviti a niente.
Ricorderò sempre, come formula deprecabile, che presumeva di far capire come mai potessero stare assieme l’uno e il tre, quella che chiamava «relazioni trascendentali» il rapporto che legava Padre, Figlio e Spirito Santo. Mi dicevo – e mi dico – meglio cantare e lodare il mistero, la dossologia, appunto, senza nessuna pretesa di capire!
Poi, ho provato a scomporre la frase. Compresi anzitutto che sono in gioco le relazioni, e l’idea di un Dio-relazione è indubbiamente affascinante, non fosse altro perché in qualche modo rimanda alla condizione che caratterizza noi, creati «a sua immagine» (Gen 1,27), per cui, come per Dio, «non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18)!
Dopo di che, superando l’impressione di astrattezza indotta dall’aggettivo, lessi il termine trascendentale come inteso a suggerire un tipo di relazioni che va oltre le nostre, ma che, in ogni caso, parte da ciò che sperimentiamo in esse, secondo il ben noto principio per cui «ogni conoscenza parte da ciò che è percepito coi sensi».
Non intendo dare una lettura “psicologica” della Trinità, cerco solo di dire a me stesso in che modo nel dogma centrale della fede cristiana si intreccino e si influenzino in una salutare circolarità l’immagine di Dio e quella dell’uomo. In sintesi, direi che la Trinità proclama ed evidenzia la fecondità e la bellezza della relazione, e questo riguarda la fede e la morale.
Trinità
Le due strofe sono state scelte dall’Inno per i Vespri della festa, Immensa et una Trinitas, e dicono ciò che la Trinità è, e ciò che essa opera. Per il vero, l’essere e l’operare sono i due aspetti inscindibili che caratterizzano tutto ciò che esiste, incluso l’Ente supremo che chiamiamo Dio. Se si parte dall’essere è perché esso costituisce il fondamento dell’agire ma, d’altra parte, solo attraverso ciò che si conosce dell’agire riusciamo a farci un’idea dell’essere.
In effetti, trovo che un percorso più percorribile non sia esplorare l’affermazione dogmatica messa in testa, ma piuttosto risalire alla Trinità attraverso il suo agire nella storia. Qui il perno che spiega tutto è indubbiamente la figura e la storia di Gesù di Nazareth.
A partire da lui scopriamo il Padre, qualificato come «fonte di ogni grazia», perché è la paternità che genera, e ancor più perché ciò che «fluisce» (verbo che rimanda all’immagine della “fonte”!) da lui come creazione è regalo di pura gratuità.
Il Figlio è chiamato «Luce della sua gloria» perché, in effetti, il Verbo è colui – tutto il vangelo è lì a proclamarlo – che ci fa conoscere la «gloria», cioè l’intima natura del Padre. Confluiscono in questo verso alcune grandi affermazioni bibliche, dove Gesù è qualificato come «irradiazione della gloria di Dio» (Eb 1,3) e «splendore della sua grazia» (Ef 1,6; Mt 3,17). Tutto ciò si riassume nel fatto che «Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Come? Nelle parole e nei «segni», con i quali Gesù «manifesta la gloria di Dio»: a Cana, ove si rivela il volto di un Padre che è dono traboccante e generoso (Gv 2,11); alla tomba di Lazzaro (Gv 11,40), ove appare che «la gloria di Dio è l’uomo vivo», come scrive Ireneo di Lione; infine, nella morte in croce (Mc 15,39), supremo gesto d’amore che, paradossalmente, si manifesta nella debolezza, ma che canta la medesima canzone: Dio si dona, e donandosi dà vita!
La forza che “lega” la relazione fra Padre e Figlio è lo Spirito, il fiato vitale, quello Spirito che Isacco della Stella legge come «bacio» (Sermone 45,12), con il che si indica la sintonia beata che nasce dalla trasmissione amorosa di ciò che unisce, abbracciandole, le persone.
La sintesi di queste relazioni è detta «sconfinato amore», che si genera dallo Spirito ed è da esso alimentato. E questo spiega tutto. Se di “trascendenza” s’ha da parlare, la cosa nasce dal fatto che l’amore in Dio, a differenza del nostro, è «sconfinato». Questa però è una trascendenza che non porta fuori dalla realtà diventando imprendibile, ma, pur essendo “oltre”, funziona piuttosto da calamita che ci aiuta a uscire dalla nostra condizione di amori handicappati purificandoli progressivamente da ogni scoria di egocentrismo che li guasta.
Dio creatore
La seconda strofa inquadra la figura del Dio-creatore, il suo agire nella storia. È significativo che l’azione di Dio non si limiti a “sorreggere” le cose, ma le “perfezioni” portandole a un traguardo di “bellezza” (decore perficit). La tesi è già espressa nei salmi: «Il Signore è potente, si ammanta di splendore (decorem), rende saldo (firmavit) il mondo perché non vacilli» (Sal 92,1), o «La parola del Signore ha reso saldi i cieli, e il soffio della sua bocca le loro schiere» (Sal 33,6). È quanto è già stato detto in Gen 1,4,10 ecc., dove, alla fine, lo sguardo di Dio che si posa sulle sue opere vede che tutto ciò che ha fatto è «cosa molto buona» (Gen 1,31). Buono è bello!
Giuliana di Norwich, con una scelta linguistica geniale, legge la Trinità come vita, amore, luce, life, love, light (Rivelazioni 83,325). L’allitterazione sulla “l” lega i tre monosillabi, e l’aver riorganizzato la sequenza mettendo al centro l’amoreraggiunge il linguaggio dell’inno che vede lo Spirito come “legame”, come segno e senso globale della relazione trinitaria, poiché l’amore è, insieme, vita e luce. La Trinità dunque è in se stessa una lezione di vita, che nasce dall’amore, e culmina nella bellezza.
Già la riflessione teologica spiega da tempo che la creazione non consiste nel fatto che Dio crei in ogni istante ogni singola cosa. Piuttosto si vuol dire che egli è quella energia da cui esce un mondo lasciato poi alla sua evoluzione, cosa che però non sarebbe possibile se Dio non “sostenesse” gli esseri di continuo, dato che le cose non hanno in sé una ragione di esistenza: se così fosse sarebbero eterne! La grazia che fluisce dal Padre diventa dunque la base che dà consistenza alle cose e ne esalta lo splendore. Questo è suggerito dal gesto di Dio che, compiuta l’opera, se ne ritira, per così dire, affidandola all’uomo perché «la coltivi e la custodisca» (Gen 2,15). Qui si crea il rapporto tra noi e il Dio-Trinità.
Immagine di Dio e custodi del creato
C’è una lezione pratica da trarre dall’icona della Trinità presentata nell’Inno, a partire da due constatazioni: 1) siamo immagine di Dio, e in quanto tali 2) siamo chiamati a essere custodi del creato.
Se Agostino si concentra sull’immagine, e vede l’uomo come «piccola Trinità» nelle sue tre facoltà di memoria, conoscenza, amore, l’Inno si focalizza piuttosto sull’agire di Dio, nelle due modalità, reggere e abbellire il creato. Siamo chiamati, come lui, a sostenere nel loro essere cose e persone e, con questo, rendere belli i rapporti tra di noi e con la creazione tutta.
Giuliana di Norwich attribuisce questo “operare alla maternità di Dio, che lei vede in azione nella figura di Gesù entro la Trinità, dove «nostro Padre vuole, nostra Madre opera, lo Spirito Santo conferma» (Rivelazioni 59,274, ma sul tema si vedano i capitoli 59-61). L’immagine è suggestiva in quanto l’idea di maternità implica il concepire, il generare, il far crescere quella grazia che sgorga dal Padre! Non è difficile leggere nell’intreccio di queste tre operazioni tutta la vita morale, con cui riproduciamo in noi nientemeno che la vita della Trinità!
Alla fine, la Trinità rimane icona in cui contemplare l’incomparabile armonia dei tre angeli di A. Rublev, ma insieme ci si propone come stimolo a tradurre tale bellezza nell’impegno quotidiano che rende feconde e belle le nostre relazioni.