di: Simone Baiocchi
Super flumina Babylonis: su queste parole del salmo 137, tanti compositori hanno plasmato le loro polifonie, intense e solenni. Leggendo i versi di questo salmo penso subito al famoso mottetto del Palestrina, in cui i bassi innalzano per primi il doloroso canto, legando con sé via via anche le altre sezioni del coro.
Mi vengono alla mente anche le diverse versioni realizzate da Domenico Bartolucci, a sei voci, a quattro voci a cappella o a quattro voci con accompagnamento d’organo: con pochi tratti melodici l’autore dipinge tutto il carico di dolore che porta con sé l’esilio in Babilonia. Penso com’è naturale anche a Giuseppe Verdi che – senza usare le parole del salmo ma avvalendosi dei versi del librettista Solera – nel suo Nabucco realizza in musica la sua versione della vicenda biblica, componendo quel Va, pensiero destinato a diventare celeberrimo.
Il grande Verdi, pur senza affidare al coro le parole bibliche del salmo, grazie ai versi di Solera, riesce a trasmettere integro lo stesso amaro sentimento di esilio dentro cui arde il fremito doloroso di un popolo. Parrebbe una terra amena quella babilonese, sia per i paesaggi che per la bellezza degli edifici: eppure Babilonia è il luogo del dolore del popolo esule, privato della libertà e umiliato nel culto.
L’inverno spirituale della celebrazione
Va poi notato che in tutte queste espressioni musicali di grande bellezza e intensità, vi è una grande contraddizione di fondo a cui forse non facciamo mai caso: l’idea di dar vita ad una musica meravigliosa per descrivere un silenzio carico di dolore. A tanta nostalgia e a tanta sofferenza gli ebrei deportati risposero infatti con una sorta di sciopero del canto, un digiuno musicale di protesta, una promessa di fedeltà a Dio affidata al mutismo: “ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”.
Ecco, apro gli occhi e mi accorgo che a causa di un terribile virus stiamo vivendo ora qualcosa di analogo ad un grande esilio che ci vede lontani dall’umanità, dalla liturgia, dalla musica. I mesi dell’inverno spirituale dell’anno 2020 sono stati particolarmente lunghi e duri.
Sono mancati i gesti e i segni della pietà cristiana insieme al nutrimento spirituale: tante persone in punto di morte non hanno potuto ricevere il conforto dei famigliari, di un prete, e nemmeno hanno potuto essere onorati con un rito funebre pur semplice e ridotto all’essenziale. Nel momento in cui ogni persona, più che mai, avrebbe avuto bisogno di una carezza, di un conforto, di una preghiera corale, tutto questo non c’è stato.
Ci è stata tolta la liturgia: le Sante Messe, nel severo decalogo dell’autorevole comitato scientifico sono state inizialmente classificate tra le maggiori occasioni di contagio, più ancora dei supermercati che, per ovvie ragioni, sono rimasti sempre aperti. Siamo stati dispersi ed esiliati, deportati nell’accogliente babilonia delle nostre stesse case.
Con la liturgia, ci è stata tolta anche la musica sacra che di questa è parte integrante e ausilio importantissimo alla grazia santificante. Conseguentemente a questo vuoto, per molti di noi è scaturito anche un doloroso esilio da sé stessi, dal nostro stesso cuore bisognoso di essere costantemente sanato da Cristo.
Fragilità delle nostre liturgie
La santa Messa l’abbiamo potuta vedere attraverso in video. L’ampia offerta proposta dalla televisione in questa circostanza è stata superata da una numerosissima quantità di liturgie irradiate attraverso la rete internet.
Tante parrocchie si sono lasciate guidare dal desiderio di servire i fedeli con la celebrazione videotrasmessa dalla propria chiesa, nel tentativo meritevole di mantenere una sorta di virtuale continuità con ciò che era avvenuto fino a qualche giorno prima in condizioni consuete. La pratica liturgica diffusa in tante parrocchie del mondo, non solo italiane, ha mostrato però molte fragilità: fatta eccezione per alcune celebrazioni sobrie e dignitose – sebbene caratterizzate da una velata mestizia nonostante la concomitanza della Pasqua – abbiamo assistito a troppe liturgie costellate di abusi e di stravolgimenti dolorosi.
Attraverso la rete, alcuni video hanno offerto alla visualizzazione di migliaia di utenti episodi, realmente accaduti, che poco o nulla hanno a che fare con la preghiera liturgica. Il passaggio, così intenso della liturgia attraverso internet, ha messo a nudo tante problematiche celebrative.
In tale contesto è emersa anche la diffusa percezione di carattere esteriore che si ha della musica sacra: qualcosa per rompere il vuoto, per eliminare il silenzio e da promuoversi per lo più se la chiesa è piena di gente. Per rendere il rito più breve, si può altrimenti, fare a meno di suonare o di cantare, ignorando in tal modo il valore rituale del canto sacro. Pensiamo ad esempio al canto dell’ordinario e dei recitativi liturgici del celebrante, come al canto dell’Exultet nella veglia pasquale.
In generale è parso di capire che, mancando il popolo, è bene essere più sbrigativi, per timore che i fedeli, seguendo la trasmissione dal cellulare o dal computer, possano percepire il tempo del canto come una lungaggine senza motivo: è prevalsa dunque una liturgia pensata in funzione di presunte dinamiche televisive.
I fiumi di Babilonia
Il risultato – sotto gli occhi di tutti – è stato quello di celebrazioni ancor più povere e spente, non solo in Quaresima e nel tempo della Passione ma anche durante la veglia di Pasqua e nelle Domeniche del tempo pasquale. Forse, distorcendone il senso profondo, possiamo dire che si è applicato alla lettera il silenzio musicale del popolo ebraico narrato nel salmo 137.
Al tempo della deportazione però l’evento della risurrezione di Cristo non si era ancora attuato; il risorto per sua natura ci impegna a cantare la sua Pasqua, anche se siamo in tempo di pandemia. Secondo la tradizione orientale Cristo cantava i salmi durante il supplizio in croce; cantavano i cristiani condotti al martirio; veneriamo Santa Cecilia che cantava durante il supplizio: noi abbiamo preferito cantare dai balconi, per lo più in modo sguaiato e rumoroso.
La cronaca dei mesi scorsi ha evidenziato nei fatti alcune delle funzioni di una certa pratica musicale odierna: il canto a piena voce per eccitare lo spirito di gruppo e la musica quale mero sottofondo scenografico (pensiamo ai tanti solisti che si sono esibiti in paesaggi completamente deserti e surreali). Si tratta di funzioni rispettabili ma assai lontane dal senso della musica nella liturgia.
Nella somma dei divieti è stata posta, in massimo grado, l’attività corale che, dopo una timida ripartenza durante il periodo estivo, sta ora subendo un nuovo fermo. I cori nella liturgia sono ammessi con rigorose norme di distanziamento interpersonale che, per forza di cose, stanno scoraggiando molti. Con ciò la liturgia risulta saccheggiata: togliere il canto del coro alla liturgia è come pensare di togliere farina al pane.
In tutto ciò la parola d’ordine è distanziamento. A motivo delle norme sanitarie, a noi musicisti e cantori viene chiesto il distanziamento con inevitabili disagi d’assieme. Chi fa musica in gruppo ha bisogno di affiatarsi con i colleghi e tale sintonia viene meglio raggiunta se le distanze fisiche non sono eccessive. È pur vero che nel tardo rinascimento si è sperimentata la possibilità di dislocare fonti sonore diverse in vari punti dell’edificio sacro: allontanando maggiormente gli esecutori possono effettivamente prodursi effetti interessanti, ma l’affiatamento generale diviene comunque precario e raggiunto con maggiore fatica.
Nel clima di questi giorni – prima del Natale – è tornata ad incombere la paura: un’aria cupa e pesante, tale da ingenerare nelle persone atteggiamenti in alcuni casi di ribellione alle norme ed in altri di sfiducia, depressione e abbandono di ogni attività di programmazione del futuro. la nostra arte è balsamo per lo spirito, luce che deve illuminare il buio di questo paesaggio in cui abitano pensieri così opprimenti. Il canto corale liturgico, oltre ad essere parte integrante del rito, è anche occasione di comunione e amicizia tra i fratelli nella fede.
Il Natale di Gesù
Purtroppo però l’attività corale non può ancora esistere in modo pieno: teniamo viva questa tenue fiamma come meglio possiamo, con la speranza che nei prossimi mesi qualcosa possa cambiare.
La celebrazione del Natale è ormai prossima e il tempo natalizio porta con sé da secoli, le sue particolarissime sonorità musicali. Possiamo pensare di celebrare la solennità dell’incarnazione del Figlio di Dio in modo spento e mesto, così come è stato fatto, ancor più ingiustamente, nella festa di Pasqua? Sulla scorta degli errori commessi e della esperienza trascorsa, dobbiamo cercare di progredire, tenendo vivi gli aspetti musicali delle celebrazioni liturgiche.
Allora – considerate le mascherine che ostacolano l’emissione del suono – il nostro canto dovrà essere alimentato da una spinta interiore ancora più forte. L’organo dovrà far udire la sua potente la sua voce per accendere di entusiasmo le assemblee liturgiche che, ci auguriamo, non debbano conoscere un’ulteriore riduzione di presenze rispettò a ciò che già stiamo vivendo. La spinta interiore necessaria possiamo trovarla nella fede, vivificata dalla preghiera, dall’ascolto della Parola di Dio e dalla stessa musica liturgica.
Da musicista compositore, organista e direttore di cori liturgici, auspico che il Natale in cui celebriamo la nascita del Redentore venuto a liberarci dal peccato sia il rinnovarsi della nascita del Christus musicus, colui che viene a dare nuova sublime intonazione al mondo reso stonato dal peccato dell’uomo.
Gesù compie l’antica alleanza: il muto dolore degli esuli di Babilonia si converte in un canto di gioia per il Figlio di Dio, Salvatore. La liturgia del giorno di Natale ci dà il tono attraverso le parole del salmo responsoriale: “Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio. Cantate al Signore un canto nuovo perché ha compiuto meraviglie”.