Ricordo ora come allora, quel giorno che entrai nell’elegante palazzo di via Monte della Farina per dirigermi nell’appartamento del mio Maestro, Cardinale Domenico Bartolucci. Era novembre e lui era morto da poche ore alla bella età di 96 anni. Lo rivedo rivestito degli abiti adeguati alla sua dignità cardinalizia, impassibile nella fissità della morte. Sembrava una di quelle sepolture medievali che vediamo a volte a terra, con il defunto multisecolare che è lì incastonato nella pietra come un diamante che Dio ha voluto riservare per sé.
Non potei non ricordare le tante volte che lo avevo visitato in quell’appartamento e le numerosissime occasioni in cui avevo frequentato la sala prove del coro della Cappella Sistina, qualche metro più in là, dove il Maestro cercava di comunicare quello che per lui c’era di più prezioso, la necessità della tradizione. Una necessità che non era amore del passato, ma anzi era amore del futuro. Cioè era comprendere che non c’è futuro se esso non è poggiato sul sano fondamento della tradizione. La sua attività straordinaria di compositore ci aveva insegnato che il progresso è un fiume cristallino quando la fonte è pura, ci aveva insegnato che la tradizione non ci castra, ma ci incastra, cioè ci pone in una continuità che è non solo benefica, ma anche ineludibile.
Lo scrittore Marcello Veneziani, nella sua Lettera agli Italiani diceva: “Nostalgia dell’avvenire. Espressione perfetta perché indica la circolarità del tempo, la necessità di congiungere la memoria del passato all’attesa del futuro e di restituire alla continuità tra le generazioni il senso più vivo di una tradizione che viene da lontano e si sporge nel futuro. Come ha dimostrato la storia del Novecento, il futuro senza tradizione si perde nella notte del presente: ogni tentativo di vivere il futuro cancellando l’origine ha trascinato anche il futuro nella morte della storia. Chi uccide i propri padri è destinato a sopprimere i propri figli, o a farsi uccidere da loro, per una perversa tradizione. Il futuro è la tradizione nella versione ventura, è il suo domani. Ogni nuovo inizio è un ritorno all’origine. Ma la tradizione ora è ferita, sgualcita, tradita e ne vanno ridefiniti i contorni, il lessico, i significati. Intanto, conforta notare in una società immersa, anzi sommersa, nel presente, tracce sorgive e aurorali, segni di gravidanza, cenni di futuro. Dopo di noi non verrà il diluvio, ma ci sarà il futuro degli altri. Non fummo i primi, non saremo gli ultimi”. Ecco, il Maestro ci insegnava questa “nostalgia dell’avvenire”, ci faceva capire che non ci si fonda sul vuoto perché nel vuoto si può soltanto precipitare. Ripeto, nella sua essenza era un grido perché una continuità troppo importante non fosse interrotta, non era il culto del passato. Purtroppo non tutti coloro che si richiamano alla lezione del grande Maestro si mettono sui sentieri della fiera tradizione, rifugiandosi in uno sterile simulacro di tradizionalismo che perverte il grande scopo della battaglia in cui siamo impegnati.
Non siamo tradizionalisti, siamo tradizionali, sappiamo che la tradizione non è qualcosa da rivendicare ma è qualcosa in cui dobbiamo vivere e respirare, perché essa è nell’ordine delle cose come Dio le ha volute e nessuno, neanche fosse egli investito di una dignità suprema, ha il diritto di cambiare questo.