Summorum pontificum: dieci anni dopo

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Buon anniversario, Summorum Pontificum. Dieci anni fa, con l’introduzione della Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio di Benedetto XVI, qualcuno aveva paventato un possibile rischio per l’unità della Chiesa. Per alcuni il ritorno di quella che Benedetto XVI definisce «espressione straordinaria» della “lex orandi” della Chiesa Cattolica di rito latino era il segnale di un’involuzione rispetto alla volontà del Concilio Vaticano II. Dieci anni dopo si può ragionevolmente sostenere che l’unità della Chiesa – da un punto di vista liturgico – è ancora salda. Non sono certo terminate le discussioni sui «due usi dell’unico rito romano», come scrive Benedetto XVI nel Motu Proprio, ma, finora almeno, la questione del modo di celebrare l’Eucaristia non è stato il problema principale della Chiesa. E chi ipotizzava che Francesco avrebbe disconfermato il passo importante compiuto da Benedetto XVI ha dovuto costatare che il nuovo pontefice non ha avuto questa intenzione.

Cosa è accaduto con il Summorum Pontificum? È opportuno ricordare che, nella lettera che accompagna il Motu Proprio, Benedetto XVI fa riferimento alle concessioni di San Giovanni Paolo II, il quale sia con l’indulto Quattuor abhinc annos – ad opera della Congregazione per il Culto Divino – sia con la Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988 aveva permesso l’uso del Messale Romano del 1962 (quindi anteriore alla riforma liturgica post-conciliare), se ci fossero stati fedeli ad avanzare richieste in tal senso. Rispetto a queste concessioni, il Motu Proprio di Benedetto XVI compie ulteriori passi avanti e permette, tra le altre novità, che, al di fuori del Triduo Sacro, ogni sacerdote cattolico di rito latino possa utilizzare il Messale di Giovanni XXIII senza bisogno di permesso; che i sacerdoti accolgano «volentieri» la richiesta per la celebrazione secondo il rito del Messale Romano di Papa Roncalli di un gruppo stabile di fedeli di una parrocchia (se la richiesta del gruppo non è esaudita, possono informare il Vescovo diocesano, che è «vivamente pregato» di dare attuazione alla richiesta); che la celebrazione secondo la forma straordinaria può aver luogo sia anche nei giorni feriali che nelle domeniche e nelle festività. Una svolta che ha rallegrato il cuore di chi non aveva mai dimenticato la Santa Messa preconciliare e di chi, più giovane, si è lasciato conquistare dalla solennità di questa celebrazione.

Se si osserva senza preconcetti l’azione di questo recupero di una parte rilevante del passato e soprattutto l’autore, è facilmente intuibile come letture ostili non trovino alcun appiglio. I tempi del “ritorno” della Messa secondo il rito antico sono diventati maturi con Benedetto XVI. La sua sensibilità permetteva che si potesse guardare al passato senza il timore di anacronistiche marce indietro. Benedetto XVI è stato, infatti, un pontefice cui non ha fatto difetto l’amore per la Tradizione, ma, al tempo stesso, è stato profondamente legato al Concilio Vaticano II: nessun culto pregiudiziale del passato, dunque, ma nemmeno alcuna indebita esaltazione, tanto esclusivista quanto miope, del presente o del futuro, come purtroppo si vede in altri uomini di Chiesa dalle opposte sensibilità. Pontefice del nostro tempo, Benedetto XVI ha favorito – per quanto è stato nelle sue possibilità – una lettura autentica del Concilio Vaticano II e delle rette intenzioni dei Padri Conciliari, troppo spesso confuse con le interpretazioni abusive che sono arrivate nel post-Concilio. Riandando a quegli anni e a quello che il Concilio ha voluto dire riguardo alla liturgia, Benedetto XVI ha ricordato: «Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione» (Incontro con i parroci e il clero di Roma, 14 Febbraio 2013).

Su questa stessa linea va la spiegazione del Cardinale Sarah, quest’anno, proprio sul tema dei dieci anni dal Summorum Pontificum (nel 18° incontro liturgico di Colonia): «La liturgia deve sempre riformarsi per essere più fedele alla sua essenza mistica. Ma la maggior parte delle volte questa “riforma”, che si è sostituita alla vera “restaurazione” voluta dal Concilio Vaticano II, è stata realizzata con uno spirito superficiale e sulla base di un solo criterio: sopprimere a tutti i costi un patrimonio percepito come totalmente negativo e obsoleto al fine di scavare un abisso tra il prima e il dopo Concilio. Ora, è sufficiente riprendere la Costituzione sulla Sacra Liturgia [Sacrosanctum Concilium, n.d.R.] e leggerla onestamente, senza tradirne il significato, per vedere come il vero scopo del Concilio Vaticano II non era di intraprendere una riforma che potesse divenire occasione di una rottura con la Tradizione, ma al contrario, di ritrovare e di confermare la Tradizione nel suo significato più profondo».

Come leggere a questo punto l’operato di Paolo VI? Sarebbe profondamente ingiusto arrivare nei suoi confronti a conclusioni arbitrarie. Come lo stesso Benedetto XVI nota, la Riforma Liturgica fu voluta dal Concilio Vaticano II e come spiega lo stesso Paolo VI nella Costituzione Apostolica Missale Romanun l’idea è quella di un recupero delle più antiche fonti liturgiche e delle formule dell’Oriente cristiano che erano state riscoperte solo successivamente. Permettere da subito entrambe le forme dell’unico Rito avrebbe probabilmente significato il mantenimento dello status quo, senza incoraggiare la diffusione di quella che Benedetto XVI definisce forma ordinaria del Rito Romano. Del resto, come notava lo stesso Papa Ratzinger, il Messale di Giovanni XXIII (che riprende quello di San Pio V) non è mai stato formalmente abrogato. Successivamente, poi, si è visto come, oltre alle resistenze irriducibili della Fraternità di San Pio X (e quindi la speranza che prima o poi si potesse arrivare ad una riconciliazione con i seguaci di Lefebvre), l’amore per la “messa antica” di diversi cattolici di sensibilità tradizionale non sia mai venuto meno. Questo è stato determinante per convincere i successivi pontefici a riaprire, pian piano, all’uso del Messale di Giovanni XXIII. Lo spirito che accomuna tutti i pontefici, di ieri e di oggi, è quello di lavorare per l’unità: per questo noi fedeli non dovremmo dare origine a contrapposizioni sterili.

Nella lettera che accompagna il Motu Proprio, Benedetto XVI scrive che è infondato il timore che venga contestata la riforma liturgica voluta dal Vaticano II. Certo, al di fuori delle parole tranquillizzanti del papa tedesco non aiutano certi toni o, piuttosto, certe sfumature. Nel sito del Coordinamento Summorum Pontificum, per esempio, appare infelice la scelta di intitolare la sezione dedicata ai luoghi in cui è possibile partecipare alle Messe nella forma extra-ordinaria della Celebrazione Eucaristica come “Le Sante Messe in Italia”: è legittimo chiedersi, infatti, se per questi cattolici, possa dirsi lo stesso anche delle Messe celebrate secondo il Messale di Paolo VI. Non è il caso di aprire certo polemiche peregrine, ma chi visita il sito rimane spiazzato dal titolo della sezione.

Se nubi minacciose si addensano di tanto in tanto, dunque, non sono certo rappresentate dai due usi dell’unico rito romano, ma, semmai, dalle due sensibilità che da tempo immemore abitano il cuore della chiesa: quella di chi guarda solo in direzione del passato e quella di chi considera la Chiesa nata dopo il Concilio Vaticano II. Stiamo ovviamente estremizzando: nel popolo dei credenti le due tendenze allo stato puro non sono così diffuse e questo ha sempre evitato problemi maggiori. Del resto, ormai, ai santi che si sono nutriti al seno della liturgia preconciliare, si vanno via via aggiungendo quelli che, arrivati dopo, hanno trovato sostegno nel loro cammino verso il Regno nelle celebrazioni eucaristiche post-riforma conciliare. Perché l’agire di Dio non si fa mai “imprigionare” nelle forme fisse in cui vorrebbero cristallizzarlo gli uomini. Il Summorum Pontificum è un dono alla Chiesa, che merita di essere custodito con amore, e non usato come spada, dall’una o dall’altra parte.

Tratto da: La Croce Quotidiano