Tornare a fare Pasqua.

La vita assiste a una quasi inesorabile metamorfosi di se stessa.

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Fermarsi, osservare, riflettere e agire. Quando fu il tempo in cui – sul piano grammaticale – il verbo esprimeva il compiersi di un’azione, questi quattro lemmi acquisivano una portata semantica tale che ci si poteva impiantare sopra lo scorrere esistenziale di qualsiasi soggetto razionale, non necessariamente credente nel Dio dei Cristiani. Purtroppo, oggi, ad essere mutata non è la definizione grammaticale di “verbo”, ma proprio la portata semantica di cui sopra si accennava. Questi, infatti, non fondano più una normale esistenza; troppo spesso, sono addirittura estromessi dai vocabolari ontologici di ciascuno, tanto da essere ridotti a mere stringhe vuote e senza senso (quanto amo questa immagine).

La vita, oserei dire in maniera “vertiginosamente ascensionale”, assiste a una quasi inesorabile metamorfosi di se stessa, assomigliando sempre più ad un teatro dal palcoscenico pullulante di primi attori ma, al contempo, dalla sala vuota in ogni ordine di posto. Un palcoscenico che in principio ricorda un vasto campo di grano, ma che con il sovente sovraffollamento di “storie”, appare sempre più piccolo, fino al punto da non esserci più spazio per tutti; dove qualcuno viene persino disarmato della sua dignità e costretto a uscirne sulle sue gambe (come si suol dire) quando gli “butta” bene.

Troppo disturbo associare questo modo di esibirsi ai grandi maestri della tragedia greca, ma il presagio è quello che prima o poi il protagonista muore, schiacciato dall’alternarsi di troppe vicende, che non solo non controlla più, ma di cui non ne avverte neanche la portata o l’esistenza stessa. Scrivendo tali cose ho tentato invano di mascherarmi da pessimista compulsivo e giustificare il tutto attraverso questo atteggiamento, ma mai come ora mi rendo conto di trovarmi di fronte a una realtà disincantata, dove regna la teoria del “così fan tutti”.

Un momento però! Si può sempre dire di essere cristiani, che dopo la morte terrena ci sarà la vita eterna, che qualcuno ci ha salvati!
Inutile! Inutile continuare a recitare il ruolo dei primi attori di questa vita; la morte di Dio non è più di moda, rimane solo una tradizione, un ricordo che – a detta di Vincenzo Cardarelli – è solo «un’ombra troppo lunga di questo breve corpo» (Vincenzo Cardarelli, Passato)!
Come sarebbe meraviglioso, però, se il nostro non fosse solo un ricordo, se questo corpo potesse tornare a essere più lungo di questa ombra, se potessimo ancora una volta fermarci, osservare, riflettere e agire, concludendo che è altrettanto meraviglioso tornare a cogliere le differenze, tornare ad essere persone, riscoprirci Figli di Dio!

Ma Dio dov’è? Dove si è andato a nascondere questo Padre? Gesù Cristo: chi è costui?
Non affascina più neanche la mera bestemmia, ma la pura indifferenza, che sembra essere però solo l’appagamento limitato e circoscritto di una vita tranquilla ma disagiata, di una vita normale ma infelice.

Di fronte a tutto questo, a tanta sofferenza, ci scopriamo incapaci di portarvi qualsiasi rimedio fisico o naturale; tuttavia, non impotenti! In questa assurda ma non inutile esistenza, un solo nome può essere invocato per la salvezza: il nome di Gesù Cristo crocefisso, che è la risurrezione e la vita!
Si rende sempre più necessario tornare a fare Pasqua, rinascere dallo Spirito, rinascere dalla morte di Cristo e bagnarsi di quel lavacro di rigenerazione che proviene dal suo costato squarciato. Molte volte ripercorrendo la parabola del seminatore, ci convinciamo di non avere scampo, di essere l’uno o l’altro terreno, rassegnandoci a sopravvivere. Ma Lui è la via, la verità e la vita, attraverso il quale ci rendiamo conto di attraversare soltanto diverse stagioni spirituali, di ripercorrere il corso del tempo, di tornare a bagnarci nel fonte che ci generò alla vita. La Pasqua non è di per sé solo l’antico passaggio, ma è memoria, cioè il tornare a rivivere questo passaggio, passaggio che oggi si compie durante l’anno liturgico, ma in particolare nel tempo quaresimale, il tempo della lotta ultima, il tempo in cui le mani del vasaio forgiano l’opera d’arte.

Cristo Gesù, pur essendo Dio, non ha avuto timore di spogliarsi della sua regalità; si è fatto ultimo, il più piccolo, affinché nessuno – neanche il più misero della terra – si possa sentire a disagio di fronte a lui, a disagio del luogo scelto per la sua nascita. Cristo, pur essendo re, non è nato in un palazzo, perché tutti nella stalla potessero entrare, perché lui potesse essere ancora ultimo e chiudere la porta dopo essersi accertato che tutti fossero dentro, che tutti fossero salvi, che tutti avessero la vita.

Tornare a fare Pasqua, dunque, significa tornare a vivere nella tenda del Padre, ospiti nella sua santa dimora, tornare a essere serviti da Dio, che ama e dà la vita. Il grido allora che ascende al cielo, è il grido dei figli di Dio, è il grido della Chiesa che giace nelle spoglie mortali del risorto, che si trasfigura nell’agnello immolato, che si santifica sull’altare celeste dove Abramo perpetra il sacrificio del figlio.

Signore, Tu sei la Pasqua della nostra salvezza, Tu sei l’agnello immolato che non apre bocca, Tu sei colui che ha gettato nel lutto l’inferno. Torna Signore, torna a fare Pasqua con noi! Imbandisci la mensa ormai resa spoglia dal peccato, aiutaci a crocefiggerci con Te e, per mezzo della Croce, a bussare alle porte del cielo e spalancarle affinché davanti a noi sia manifesto l’orizzonte glorioso del Padre tuo.